La luce e` uno strumento irrinunciabile nelle mani dell’artista e un materiale al pari degli altri in architettura. Direttamente connessa con la nostra percezione del mondo, la luce, che e` sempre stata usata come commento a superfici e volumi, dall’avvento dell’illuminazione artificiale gioca un ruolo piu` autonomo e indipendente nei processi formali e strutturali. La luce, con la sua energia smaterializzante, ha contribuito a quel declino dell’opacita` dei corpi e dei volumi che ha preso il sopravvento in buona parte delle realizzazioni artistiche e architettoniche dalla seconda meta` del secolo scorso in poi (1).
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Lo scenario e` quello che si e` formato in poco piu` di cento anni, e precisamente da quando la luce al neon ha assunto nuova presenza nel mondo. La messa a punto da parte del fisico francese Georges Claude di tubi fluorescenti e diversamente colorati apre una nuova epoca a partire dal primo decennio del Novecento (2), cosi` come in questo nuovo millennio la tecnologia a LED ha impresso un nuovo ulteriore passo al mondo dell’illuminotecnica. Di fatto la luce ha modificato il nostro rapporto con i panorami e la vita notturna delle citta`, e non importa piu` che siano metropoli; ha rilevato l’architettura reale in segni essenzialmente luminosi; ha impresso un’altra dimensione nelle arti visive ampliando il proprio valore simbolico, come fino a quel momento era stato in pittura, perché non più confinato al metaforico. L’essenza spirituale che la luce ha evocato per secoli è virata in proposta secolare e laica; gli effetti luministici hanno conquistato lo spazio reale, così come l’ombra, alla luce connessa strettamente, non ha più giocato un ruolo esclusivo nel rapporto cromatico o nella creazione di un’atmosfera. Infine, la sorgente luminosa nel coincidere con l’oggetto illuminato è entrata a pieno titolo nello spazio della comunicazione.
La luce, quindi, costituisce un nuovo campo espressivo verso il quale artisti e architetti non possono restare indifferenti proprio per il valore di novità che ha saputo introdurre e per la qualità dell’esperienza che sa far nascere. Bellezza, stupore, conoscenza, funzionalità, benessere traggono nuova linfa dal sapiente utilizzo della luce. A queste considerazioni di carattere generale ne dovrebbero seguire di più specifiche in riferimento alla singola tensione che ciascun operatore adotta verso l’espressione luminosa e su come questa s’incroci con le altre tematiche che impollinano le opere. Affrontare il singolo, stringere sul particolare, in quest’occasione vuol dire puntare l’attenzione su Massimo Uberti, artista che con la luce lavora, anzi, questa costituisce l’elemento generativo di ogni sua opera. Senza luce i suoi lavori non si vedrebbero, non perché calati in una fitta oscurità ma perché privi della loro prima essenza, della loro potenza poetica. L’energia luminosa è fonte di vita e Uberti la rafforza in questo ruolo nel mondo dell’arte. Nel suo lavoro la luce non ha soltanto il compito di rivelare l’opera ma anche quello di renderla materiale all’apparizione, di tenerla insieme nella coerenza concettuale, di offrirla al visitatore come un passaggio fuori dal vuoto. La ricerca formale di Uberti, pur partendo da alcuni caratteri comuni alla sua generazione, quella che all’inizio degli anni 90 si è scontrata con la disseminazione della forma, ha sfuggito ogni confinamento nello stile, ha infranto ogni regola con la libertà al disinvolto utilizzo dei piu` diversi media, e` stata vissuta nell’individualità con quell’estremo rigore che ricorda il controllato passo del funambolo in equilibrio sulla corda. E, come per questo non si tratta di tecnica o artificio ma piuttosto di una disposizione naturale a camminare sul limite, a misurare ogni passo, a sperimentare la vertigine come emozione reale, nel suo caso la virtualità del fenomeno luminoso nella sua evanescenza e fisicità. Il suo è uno stare in silenzio sul varco, esserne il custode attento in attesa che il visitatore lo oltrepassi perdendo cosi` la sua condizione d’inesperienza. È in questo gioco di offerta e aspettativa che acquista senso l’intima aggettivazione che Uberti avverte verso lo spazio e che dichiara in brevi statement: spazio necessario, spazio amato, spazio atteso, spazio infinito e altro spazio. Ai quali deve essere aggiunto l’essere spazio, ovvero la predisposizione all’azione, a diventarne parte. Dopo tali dichiarazioni appare immediatamente chiaro come la qualità spaziale sia ricercata in tutte le sue opere che sono in massima parte realizzate in situ; una lunga catena che può apparire come una sorta di performance continua in sempre nuovi ‘teatri’. Opere in cui lo spazio s’intreccia alla inclinazione e a un gusto verso il disegno oltre a una proiezione utopica nei confronti della società. L’arte come forza ammonitrice e come aspirazione a un nuovo mondo, come sconfitta delle tenebre culturali e mentali, resta il faro che indica la sua rotta. Nei suoi lavori ancora una volta l’esperienza dell’arte e della vita quotidiana si presentano come un solo universo unificato. E quest’unità Uberti la propone non con incursioni nella sociologia, nella geopolitica, nell’informazione ma con la grazia e la gioia di chi abita l’arte e a questa e` strettamente interessato perché l’opera da` origine a luoghi altri e racchiude in sè passato e futuro. Se proprio dobbiamo individuare una sua digressione in altra disciplina, Uberti la compie nell’architettura e ancor più specificatamente nella sua radice progettuale in cui si registrano le preoccupazioni del dover dare forma a un mondo migliore. Da questa tangenza prendono forza i suoi lavori intorno alle città ideali che a sua volta sono il punto d’incontro perfetto del pensiero politico con quello estetico. A partire dal nuovo millennio, Uberti rilegge in diversi appuntamenti i progetti di queste città governate dallo spirito superiore dell’Umanesimo proprio perché nelle loro idee e aspirazioni ritrova i fondamenti del buon abitare. Ma prima di analizzare quelli che sono già degli esiti maturi è bene ripercorre, seppur brevemente, i suoi esordi in modo da offrire una narrazione utile a interpretare tutto quello che in questo libro è documentato nella parte fotografica. La prima mostra avviene nello spazio di via Lazzaro Palazzi nel 1990, uno spazio gestito in piena autonomia da un gruppo d’artisti da poco usciti dall’Accademia di Brera a cui aderisce anche Uberti, il più giovane tra tutti. Un diaproiettore diffonde su una scatola di plexiglass, al cui interno sono racchiusi degli scarafaggi, un’immagine di un edificio industriale: l’impianto di riciclaggio dei rifiuti della città di Brescia. Gli insetti, che dentro il contenitore trasparente si muovono liberamente sulla diapositiva, fanno immaginare una videoproiezione che in realtà non esiste. Il titolo, “… Signori … si chiude!”, sicuramente scaramantico per una mostra d’esordio cela nella sua apparente bizzarra affermazione, tipica formula per sgombrare un locale, un invito alla partecipazione: si può invitare a uscire solo chi è entrato. In mostra sono messe in relazione due architetture, quella reale e quella virtuale, altrettanto povere e inespressive. E la luce gioca da subito un ruolo importante perché “consente la messa in forma di una tale relazione complessa”(3) in quanto illumina l’ambiente e da sostanza all’immagine. Anche nella mostra successiva nella chiesa di San Zenone a Brescia e` proiettata una diapositiva e ancora una volta l’ambientazione è carica di presenze del passato che dialogano con un’immagine del tempo presente. Ai frammenti di affreschi conservati nell’edificio si aggiunge un paesaggio boschivo con al centro la grande scritta in caratteri graziati VLU, che in provenzale significa velluto, un materiale che nella pittura rinascimentale è stato largamente e attentamente rappresentato. Un’installazione, questa, che parla del rapporto arte natura, che richiama la storia dell’arte in cui s’intrecciano temporalità e forme diverse, che con discrezione rispetta e reinventa la storicità del racconto grazie proprio all’utilizzo della luce. Le proiezioni in Uberti offrono lo spunto per riflettere sulla presunta neutralità dello spazio, anche quando appare come schermo e definiscono la sua predisposizione a risolvere tecnicamente l’opera con semplicità, semplicità che nel tempo rimane un carattere distintivo del suo lavoro.
Con la partecipazione al progetto “Imprevisto” presso il Castello di Volpaia del 1991 Uberti rende per la prima volta protagonista il fascio di luce propriamente inteso. Infatti, un potente faro collocato sopra un ulivo illumina un pavimento di piastrelle industriali dal colore giallo oro. “Il dittatore”, così il titolo dell’opera realizzata all’aperto, introduce un evento inatteso nella notte della campagna toscana e impone la sua presenza di artefatto in un contesto naturale. Lo straniamento contestuale, anche se al contrario, viene poi ripreso nell’installazione “Vegetali di Grenoble” proposta l’anno successivo presso il Magasin per una mostra collettiva, quando l’artista colloca nella grande sala del centro d’arte contemporanea francese una serie di lampioni da strada (installazione poi riproposta a Milano per Milano Poesia). Un’installazione che fin dal titolo ricorda le strambe, innocenti e poetiche avventure di Marcovaldo, il protagonista dell’omonimo libro di Calvino, e che, riletta a distanza di tempo, segna nel suo percorso la prima tappa per una funzione architettonico-scultorea data insieme dall’illuminazione e dagli apparecchi che la diffondono. Un passaggio che definitivamente arriva soltanto a fine decennio, infatti, negli anni 90 Uberti è impegnato in una riflessione intorno all’utilizzo dell’immagine fotografica, che come sappiamo e` un modo di “scrivere con la luce”, e, successivamente, sulla sua virtualità grazie all’affermarsi dei nuovi software digitali. Una ricerca così orientata non impedisce, pero`, a Uberti di continuare la sua sperimentazione con installazioni realizzate in situ, in cui continua a utilizzare proiezioni o retroilluminazioni, come avviene nella mostra “La maestà dell’invisibile” o in “Empedocle” presso lo Studio Bocchi di Roma. I temi sono ancora quelli della storia dell’arte (per la mostra romana utilizza una copia in gesso del Cavaspina dei Musei Vaticani), della visione e della sua distorsione, del mettere in relazione interno e esterno, o materiali di varia natura. In un momento in cui anche in arte si è alla ricerca dell’evento mediatico Uberti reagisce a tutto questo cercando di percorrere un’altra via più fedele alla sua etica d’artista e piu` incentrata intorno ai valori universali dell’opera. La sua sfida è sempre quella di voler accendere la luce sul lato meno conosciuto delle cose. Sono di questi anni una serie di opere fotografiche dal sapore visionario, in cui la figura predominante è la casa o un frammento di essa. Si ritrova sospesa tra le nuvole o sdoppiata nella notte. A queste si affiancano immagini di finestre illuminate nel buio che, in continuità con quanto fino a quel momento fatto, prendono il titolo di “Sipari luminosi” o “Abitare”. E questo titolo si ritrova ancora nei disegni retroilluminati di un corpo accovacciato o di una finestra con l’avvolgibile alzato. Infine, così è intestata anche quella semplice casetta, quasi un disegno di un bambino, realizzata nel 1999 con solo 15 tubi al neon quali tratti lineari di una matita luminosa. Si tratta di una conferma di quanto fino a questo momento fatto ma anche dell’inizio di quel suo operare direttamente con la luce nello spazio. E ancora, con questa sintetica struttura trova compimento il suo dialogo con l’architettura individuata quale “culla dell’esistere umano e sociale, luogo del senso, luogo fondativo”. (4) D’ora in poi quelli che sono i fragili contorni disegnati dal neon che alludono alla presenza dell’uomo e il cui contenuto emotivo e` espresso da un vuoto, si succederanno senza sosta nel suo lavoro. Sono citazioni di frammenti architettonici che si presentano come quinte teatrali simboliche più che vere e proprie sculture, sono gabbie luminose affacciate sull’infinito come evocano anche i titoli di alcuni lavori datati tra il 2005 e il 2006. Ritornano i temi di un’iconografia del passato come in “Uno studio” o nel più semplice “scrittoio”, mentre il legame con il disegno progettuale, proprio perché sono tratti nello spazio, si fa più stringente e letterale: la struttura e` come proiettata nello spazio rispetto al disegno. Ma anche su questo fronte Uberti e` pronto per fare un passo laterale, a scombinare le carte, a trasformarlo in scrittura perché consapevole che “se ti muovi non ti prendono”, come recita la sua scritta del 2005 in omaggio a Pinot Gallizio. Le sue dichiarazioni luminose al neon richiamano solo in parte quella radicalita` concettuale degli anni 60; Uberti le stempera sia nell’eredita`, tipica della cultura medio orientale, del disegno come forma di scrittura, sia nel lascito di Lucio Fontana e del suo “arabesco” per la XI Triennale di Milano del 1951. Gli statement gia` ricordati a proposito del valore da attribuire allo spazio acquistano dimensione ambientale e vanno cosi` a illuminare di nuovo senso le loro destinazioni. “Altro spazio” realizzato per il Museo Pecci Milano amplifica la portata museale dell’operazione realizzata dal Centro Pecci di Prato nell’aprire una nuova “vetrina” (5); “Spazio amato” riproposto nella grande sala d’ingresso della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma invita il visitatore a riconsiderare il valore di un museo come bene comune, mentre la stessa frase, con caratteri piu` scomposti e all’aperto, presentata a Ravenna, dichiara l’amore per l’arte e la sua diversita`. Sebbene in uno spazio pubblico, “Today I Love You”, opera permanente collocata sul ponte davanti alla stazione centrale di Amsterdam (realizzata durante l’Amsterdam Light Festival del 2016) propone a ogni singolo osservatore un suo struggente o gioioso pensiero, come testimoniano le migliaia di foto pubblicate su Istagram. Strettamente private, ma non di minor impatto su chi ha la fortuna di poter accedere in quelle abitazioni, sono le scritte “esserespazioamatonecessarioinfinito” o “il faut cultiver notre giardin” con cui Uberti gioca ancora una volta tra etica ed estetica. “Never Off”, invece, scritta al neon presentata per l’omonima mostra presso lo Spazioborgogno a Milano nel 2011, sembra invece alludere alla luce come fonte di infinita energia. La mostra si presenta con una varieta` di segni luminosi che disegnano non piu` un unico ambiente ma singoli elementi (una modalita` che ritroviamo anche in altre occasioni espositive sempre negli stessi anni), sebbene la visione sia di grande unita` e pur nella frammentazione si componga in un solo quadro. Mai spento, torna ossessivamente in mostra quasi a testimoniare l’atteggiamento vigile di Uberti nei confronti dell’arte e della luce ma anche il carattere fantasmatico delle sue opere che possono “morire” con un semplice gesto su un interruttore. Anche quando nel 2015, in occasione di Miami Art Basel Uberti realizza per la nota casa automobilistica inglese Bentley l’opera “Drawing of drawing“, non si tratta di un’architettura fantasma; questa come le altre strutture luminose non hanno lo stesso sapore della Franklin Court di Robert Venturi a Philadelphia. Sono sempre qualcosa di vivo e di praticabile sebbene esistenti solo nei loro confini al neon, sono fonte di energie etiche, estetiche, aspirazione alla misura, al garbo delle proporzioni, in ultima istanza al bello. Esemplare in questa direzione verso l’ideale di vita e di arte e` la grande installazione pubblica realizzata nel 2008 presso la Fondazione Le Stelline dal titolo “Tendente infinito”. Nel gia` suggestivo chiostro della Magnolia, Uberti ripropone a larga scale il disegno di Sforzinda, la citta` ideale disegnata dal Filarete nel 1465 circa. E` una pianta sospesa, realizzata con tubi al neon, che si pone come un filtro tra la citta` reale di Milano e il cielo, quasi a indicare una nuova costellazione e quindi una nuova rotta. Secondo le parole dell’artista è una “città che ha al centro l’uomo, che è ancora capace di sognare, che ritorna a guardare in alto”. Uberti, è proprio il caso di dire, non soltanto riaccende la luce su uno dei piu` caratterizzanti filoni del pensiero architettonico italiano (6) ma ne inverte la prospettiva, cio` che prima era stato visto sempre dall’alto ora e` visibile dal basso; propone la possibilita` di abitare la citta` ideale in maniera reale come gia` qualche anno prima aveva offerto, anche se su diversa scala, la dimensione del camminarci in quelle riprodotte sui tappeti fatti realizzare nel 2004 in Rajasthan o come fa nel 2013 con quelle realizzate a specchio dove e` possibile riflettersi e quindi diventarne parte. Partecipare e` una delle dimensioni fondamentali dell’opera di Uberti e la luce e` il mezzo per creare relazione. Chiaramente Uberti sa benissimo che una città ideale non può esistere e che non è nemmeno immaginabile al di fuori dell’arte, ma sa benissimo che l’arte e` uno dei messaggi più potenti per indicare un futuro diverso. Se architetti e urbanisti possono costruire soltanto città funzionali l’artista può permettersi la posizione più scomoda di ribadire l’utopia. E cosi` dopo otto anni da quell’esperienza Uberti rilancia nuovamente la citta` ideale nella mostra “After the Gold Rush” presso lo Spazioborgogno. Il titolo questa volta prende spunto da una canzone di Neil Young ma allude all’oro delle space blanket, le coperte isotermiche “metallina” utilizzate nelle situazioni di emergenza e ormai in modo massivo nel salvataggio delle centinaia di migliaia di profughi che cercano di raggiungere l’Europa superando le frontiere dei Balcani o via mare verso Lampedusa e la Sicilia. La pelle brillante, dorata, di questo materiale industriale con cui si avvolge e salva la vita a un uomo, diviene il “modulo” su cui poter scrivere parole nuove e disegnare ancora una volta, in pianta o in prospettiva, la città di Sforzinda. A terra è collocata una porzione di quella realizzata al neon nel 2008 perché continui a illuminare il mondo nella sua poesia ma anche perché amplifichi la riflettanza di quella che nasce da un’urgenza dei nostri giorni. Repetita iuvant, cosi` come la poesia deve aiutare la realtà e l’etica unirsi all’estetica: oggi che la corsa all’oro e` soltanto un ingannevole brillio, dobbiamo necessariamente costruire la citta` ideale in cui vivere in armonia, nella condivisione di spazio oltre che di valori. Uberti in tutti questi anni si e` mosso passo dopo passo su questi limiti con sorprendente raffinatezza ed eleganza per offrire luoghi per abitanti poetici.
Marco Bazzini
NOTE
(1) Anche se in arte le prime esperienze risalgono all’inizio degli anni Trenta con il grande gioco di luci e ombre di LaÅLzloÅL Moholy-Nagy in Licht-Raum Modulator o le prime sculture al neon dell’artista ceco Zdeněk PešaÅLnek, e` dal 1951, ovvero, da quando Lucio Fontana realizza quell’arabesco nello spazio dal titolo Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, che inizia e si diffonde questa nuova dimensione.
(2) “Neon – la materia luminosa dell’arte”, a cura di David Rosenberg e Bartolomeo Pietromarchi, Quodlibet, Macerata, 2012.
(3) Mauro Panzera, Sotto Il cielo di Milano, in “Massimo Uberti – Dreams of a possible city”, Electa, Milano, p. 14.
(4) Mauro Panzera, op. cit., p. 34.
(5) Ad Aprile 2010, durante la mia direzione, il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato apre nei locali di Ripa Ticinese 113 a Milano uno spazio dedicato all’esposizione della collezione permanente. Quest’attivita` si chiude nel marzo 2014.
(6) Fabio Isman, “Andare per citta` ideali”, Il Mulino, Bologna, 2016.